di Marco Bersani (Attac) e Giulio Cavalli (Left)

La visione dell’Italia di Bonomi, Confindustria.
Segnaliamo due articoli:

La società della cura contro il Far West di Bonomi

 9 Ottobre 2020 

di Marco Bersani, Attac Italia

Si dice che ami le immersioni davanti alle più belle isole del mondo, la musica degli anni ’80, la buona tavola e le visioni in anteprima dei film in uscita, ma la vera passione di Carlo Bonomi (un ossimoro per cognome), presidente di Confindustria, sembra il disprezzo per i poveri che non perde occasione per esternare.

Ha ribattezzato l’Italia “Sussidistan”, gridando a squarciagola che nei decreti del Governo c’è solo denaro a pioggia per sussidiare i poveri e nulla per le imprese, “le uniche che possono rilanciare l’economia”.

Bonomi sa che, in questa fase di estesa capacità produttiva inutilizzata, dovuta ai mesi di lockdown, nessuna impresa si azzarderebbe a investire o anche solo a tornare alla produzione pre-Covid, oltre ad essere consapevole che, essendo aumentata esponenzialmente la povertà nel Paese, si è proporzionalmente ridotta la fascia di popolazione con capacità d’acquisto.

Infatti, non chiede piani industriali strategici – per esempio, una radicale trasformazione ecologica della produzione alimentare, manifatturiera, delle reti energetiche e infrastrutturali – ma solo che tutti i soldi a disposizione vadano alle imprese, e più precisamente – data la difficoltà ad investire – ai dividendi degli azionisti.

Ma corrisponde a realtà l’analisi di Bonomi? Guardando i dati non si direbbe proprio: dei 112 miliardi messi a disposizione dal governo per contrastare gli effetti economico-sociali dell’epidemia, alle imprese in senso stretto è andato il 48%, pari a 53 miliardi, sotto forma di agevolazioni ed esenzioni fiscali, contributi a fondo perduto e garanzie pubbliche ai finanziamenti bancari. Se ai sostegni diretti aggiungiamo anche quelli indiretti, la cifra sale a 67 miliardi, ovvero il 60% del complessivo stanziato. Se, infine, calcoliamo anche i 44 miliardi per il Fondo patrimonio della Cassa Depositi e Prestiti, che ha il compito di ricapitalizzare aziende di grandi dimensioni in difficoltà, il quadro diviene ancor più netto: siamo di fronte al più classico “chiagne e fotte”, la vera cifra della cultura d’impresa di questo Paese.

Non contento, il prode Bonomi si è cimentato su un tema ben conosciuto nella corte dei poteri dominanti: le tasse. Vi aspettereste un mea culpa sulla gigantesca e cronica evasione ed elusione fiscale, che ogni anno sottrae 110 miliardi alla ricchezza sociale prodotta? Certo che no; serve “(..) una visione alta e lungimirante, una prova che lo Stato mette tutti sullo stesso piano, senza più alimentare pregiudizi divisivi a seconda della diversa percezione di reddito”. E quale sarebbe? Che anche i lavoratori dipendenti paghino le tasse da soli sollevando le imprese dall’onere ingrato di continuare a svolgere la funzione di sostituti d’imposta addetti alla raccolta del gettito erariale e di essere esposti alle connesse responsabilità”. Praticamente, l’estensione della possibilità d’evasione fiscale all’intera società, divenuta uguale nello smettere di pensarsi tale, bensì una somma di interessi individuali in competizione tra loro.

Da ultimo, ecco la “rivoluzione” del lavoro, secondo il Bonomi – pensiero:”Certo che vogliamo i contratti, ma li vogliamo ‘rivoluzionari’; senza scambi novecenteschi tra orari e salari, con l’attenzione all’occupabilità della persona più che al posto di lavoro, con accordi locali o addirittura individuali invece che gli obsoleti contratti nazionali”. E, naturalmente, senza aumenti salariali dato che non c’è inflazione.

C’è un filo logico immediato che sottende a tutte queste dichiarazioni: arriveranno decine di miliardi  dai fondi europei e Bonomi si mette alla testa dell’assalto alla diligenza. Tutti quei soldi – pubblici – devono andare alle imprese e sul loro utilizzo nessuno deve mettere bocca.

Ma c’è anche il tentativo di riassestare le crisi sistemiche del capitalismo, attraverso un modello sociale basato sulla solitudine competitiva, sulla separazione autoritaria e gerarchica, sulla divisione tra vite degne e vite da scarto.

L’esatto opposto di quanto le piazze e le strade di questi giorni, animate dalle azioni dirette di Fridays For Future ed Extinction Rebellion e dalla ribellione di una giovane generazione che chiede giustizia climatica e sociale, provano a mettere in campo: una società della cura, che metta al centro la vita e la sua dignità, che sappia di essere interdipendente con la natura, che costruisca sul valore d’uso le sue produzioni, sul mutualismo i suoi scambi, sull’uguaglianza le sue relazioni, sulla partecipazione le sue decisioni.

La partita è aperta e drammatica, nessun* potrà permettersi di fare da spettatore.


Che brutto Paese ha in testa Bonomi

 13 Ottobre 2020 

di Giulio Cavalli, Left

Lavoro, scuola, sanità: la visione dell’Italia del futuro proposta da Confindustria. E com’è? Pessima, disuguale e sempre più precaria

Sempre lui: Carlo Bonomi, il turbopresidente di Confindustria, quello che almeno ha il coraggio di non nascondere di odiare i poveri, quello che difende a oltranza i capitalisti che fanno i capitalisti con i capitali degli altri (quelli pubblici) e che chiama lo stato sociale “assistenzialismo” per racimolare applausi gaudenti. Ne abbiamo scritto lungamente nel numero di Left del 9 ottobre e ora Bonomi torna alla ribalta presentando un bel tomo di 385 pagine dal goloso titolo Il coraggio del futuro in cui non si limita a rappresentare gli industriali ma addirittura propone la visione del Paese del futuro, con la sua solita innata modestia.

E com’è l’Italia vista da Confindustria? Pessima, disuguale e sempre più precaria. Partiamo dal lavoro: dice Bonomi di volere un «mercato del lavoro più libero e leggero» che in sostanza si traduce in licenziamenti più facili, facendo sempre meno ricorso al giudice del lavoro e sostituendo i diritti con compensazioni economiche. Soldi, soldi, soldi, siamo sempre lì: i diritti si comprano, come al mercato. Eccola la visione. Ma la chicca sul mondo del lavoro sta lì dove Confindustria spiega che «occorre avere il coraggio di affrontare in modo equilibrato anche il tema dei licenziamenti per motivi oggettivi, in modo tale che non costituiscano più un evento traumatico ma possano essere vissuti dal lavoratore in un quadro di garanzie tali da renderlo un possibile momento fisiologico della vita lavorativa». Chiaro? Allevare una nuova generazione di lavoratori sempre pronti a essere licenziati. È la turboprecarietà come ricetta per rilanciare l’economia. Roba da pelle d’oca. E non è tutto: «lo smart working può essere un terreno ideale per portare avanti questa maturazione culturale che chiede di “essere” partecipativi: non è certamente foriero di risultati stabili pensare la partecipazione in termini di “avere” – cioè ottenere attraverso la contrattazione – se poi la mentalità di fondo è e rimane quella antagonista», scrive Confindustria. In sostanza i lavoratori maturi sono quelli che non avanzano pretese. A posto così.

Poi c’è il sogno di Confindustria e di Bonomi: il lavoro a cottimo. Però le argute menti degli industriali chiamano il lavoro a cottimo “purezza”. Scrivono infatti: «Occorre disciplinare questo rapporto non restando rigidamente ancorati a tutte le caratteristiche del contratto di lavoro classico, connotato da uno spazio e da un tempo di lavoro. Serve una regolamentazione che consenta, da un lato, di vedere il lavoro “in purezza” come creatività, sempre più orientato al risultato, e, dall’altro, di remunerarlo per il contributo che porta all’impresa nel processo di creazione del valore». Fenomenale l’idea di cancellare anni di lotte sindacali e sociali, non c’è che dire.

Poi c’è la scuola, che Bonomi e i suoi associati vedono unicamente (ma va?) come fabbrica per produrre lavoratori, mica persone. Per farlo addirittura scomodano il vecchio (e fallimentare) pensiero dell’homo faber. Scrive Confindustria: «il sapere, il saper fare, il saper essere insiti nelle risorse umane, combinati insieme, influiscono positivamente sulla produttività del lavoro a livello di singola azienda e, per aggregazioni successive, innalzano il potenziale di crescita del sistema nel suo complesso». La scuola come fabbrica (di Stato) che produce lavoratori in serie, mica persone.

E poi la sanità. Sanità che per Confindustria non significa “salute” ma mera economia. Si legge: «è necessario misurare gli effetti delle politiche sanitarie in base al loro impatto sulla struttura industriale (occupazione e produzione) e sulla capacità di attrarre investimenti (…) Occorre valutare le prestazioni, non solo in base al costo, ma anche al rendimento, quindi ai risultati generati, che nel caso della sanità sono di natura clinica, scientifica, sociale, ma anche economica. Abbandonare modelli di gestione che non tengono conto delle forti interazioni nei percorsi di cura e determinano costi molto elevati per le imprese, a danno dell’innovazione e della sostenibilità industriale». Una salute che Bonomi vede sempre più verso il privato (ma va?) e che addirittura viene rivenduta ai dipendenti dalle aziende come pacchetti di welfare.

E questo è solo un assaggio.

Buon martedì.