di Daniela Padoan

A partire dalla drammatica crisi climatica fino all’impoverimento dei cittadini, i problemi vengono enfatizzati, senza che poi si agisca di conseguenza coerentemente”

Da tempo viviamo in un doppio registro di realtà, dove tutto viene nominato senza per questo assumere le conseguenze di ciò che implica. L’intreccio di crisi – climatica, pandemica, bellica, economica, politica – non viene negato; ciascuna di queste crisi viene anzi enfatizzata, e tuttavia privata di decisioni conseguenti. «Nerone è stato notoriamente accusato di girarsi i pollici mentre Roma era in fiamme – ha affermato recentemente il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres –, ma oggi alcuni leader stanno facendo di peggio. Stanno gettando benzina sul fuoco. Letteralmente». E anche noi, inevitabilmente ridotti a consumatori e spettatori del disfacimento, sembriamo incapaci di reazione davanti a segnali non più equivocabili.

Nell’ultimo mese sono sfilate davanti ai nostri occhi, per poi subito dileguarsi, simili a residui di incubi, immagini di un’apocalisse testardamente ignorata: i rondoni caduti dal cielo a migliaia, uccisi dal caldo, in Spagna; la distesa di bovini stramazzati al suolo a perdita d’occhio in un orrendo olocausto animale, in Kansas; i tronchi spezzati, le radici secolari divelte degli alberi del parco La Mandria di Venaria, pezzo di Piemonte sfigurato da un tifone; il crollo di un seracco di ghiaccio sulla Marmolada dopo che in vetta si continuano a registrare temperature inaudite; gli incendi che, nell’intera Europa, si cerca di spegnere con l’acqua che scarseggia. Guardiamo il Po morire mentre il suo greto in secca viene ulteriormente violato, ridotto a pista da motocross. Ma è come se vedessimo senza vedere, se sapessimo senza sapere, in un continuo addestramento a separare l’enormità di ciò che accade dalla necessità di azioni conseguenti.

Pochi giorni prima delle dimissioni del governo Draghi, Guterres aveva pronunciato, ancora una volta, parole gravissime eppure quasi del tutto ignorate, nella corsa irresponsabile a trasformarci nel Paese dei ciechi così lucidamente prefigurato da Saramago: «Metà dell’umanità si trova nella zona di pericolo a causa di inondazioni, siccità, tempeste estreme e incendi. Nessuna nazione è al sicuro. Eppure continuiamo ad alimentare la nostra dipendenza dai combustibili fossili. Abbiamo una scelta. Azione collettiva o suicidio collettivo. Il futuro è nelle nostre mani». Anche il governo di ‘unità nazionale’ uscente, a causa della linea prevalente al suo interno e nonostante l’impegno di singoli ministri, ha riaperto le centrali a carbone come risposta a una guerra che esso stesso ha contribuito ad alimentare, inviando armi anziché cercare prioritariamente mediazioni di pace. Ha parlato di giustizia ambientale mentre teneva bloccato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici («rimasto nel cassetto», come denunciato dal presidente Mattarella) e rovesciava fiumi di cemento, disboscava, progettava ‘grandi opere’ e olimpiadi invernali con neve finta, quando non c’è più neve, e nemmeno acqua. Ha ignorato la volontà più volte espressa dai cittadini, includendo nella transizione ecologica un programma di ritorno al nucleare spacciato per ‘ green’. E senza fare passi coerenti per distanziarsi dalla cultura antropocentrica all’origine del disastro ecologico che ora si sta rovesciando sulle nostre esistenze, ha raccontato che la tecnologia è in grado di aggiustare ciò che distrugge. Ma le specie estinte non si rigenerano; le coste erose, le foreste millenarie abbattute, i ghiacciai liquefatti non si ripristinano.

A quanto pare, il feticcio della crescita costi quel che costi non può essere toccato, è la nostra orchestra del Titanic. Allo stesso modo, in tutta l’Unione, abbiamo visto trasformarsi in uno svuotato rituale il feticcio dei «valori europei » di democrazia e accoglienza – gli stessi che oggi staremmo difendendo con l’invio di armi in Ucraina – mentre si addestrava la guardia costiera libica, si facevano accordi di respingimento con la Turchia di Erdogan, si azzerava il soccorso in mare, si permetteva che l’agenzia delle frontiere Frontex guardasse i naufraghi annegare dalle telecamere di un drone con terminale a Varsavia senza intervenire; si ammassavano profughi «in condizioni che ricordano quelle cui sono costretti i migranti nei lager in Libia», come ha recentemente affermato la ex sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini parlando delle più di duemila persone, tra cui bambini e donne incinte, costrette a dormire e mangiare per terra, tra i rifiuti, rinchiuse nel ‘centro di accoglienza’ dell’isola. La gestione delle crisi consiste nel metterle sotto un tappeto con parole ampollose, commissioni e piani, come si è fatto con il Covid-19, con la povertà, con il clima. Ma arriva il momento in cui i tappeti non bastano, nemmeno quelli fatti di eufemismi, greenwashing e business as usal (finte svolte verdi e ‘si è fatto sempre così’).

Un’estate di siccità, incendi e razionamento d’acqua, con un’inflazione superiore all’8%, in cui la crisi finale della politica italiana si è manifestata con una fuga dalla responsabilità dinanzi a un Paese che vanta il livello salariale tra i più bassi d’Europa e la triplicazione delle persone in povertà assoluta negli ultimi 15 anni; il tracollo dei pronto soccorso e la dismissione delle Unità di continuità assistenziale contro il Covid proprio mentre risalgono contagi e morti; la prospettiva di un inverno di riscaldamento contingentato: cos’è, tutto questo, se non uno scenario di guerra? Una guerra contro le persone e contro l’ambiente. Il contrario dell’affermazione per cui «giustizia sociale e giustizia ambientale sono facce della stessa medaglia», ridotta a slogan ripetuto e ignorato fino allo svuotamento di senso.

Le prossime elezioni, precipitate in un momento disperante potrebbero essere l’ultima possibilità per l’affer-mazione di una democrazia sostanziale. Quando l’analfabetismo funzionale dilaga al punto da situarci tra gli ultimi Paesi in Europa; quando il lavoro perde ogni giorno valore, con un neoschiavismo diffuso e un numero crescente di precari e working poor, persone che, pur avendo un impiego, non riescono a superare la soglia di povertà; quando la sanità pubblica viene progressivamente smantellata e la scuola impoverita, e tutto questo non trova voce concreta, allora la stessa educazione, lo stesso lavoro, la stessa salute cominciano a non valere nulla, nemmeno nella nostra percezione, nemmeno quando riguardano direttamente le nostre esistenze; e lo stesso accade per il collasso climatico cui stiamo andando incontro. Similmente, il voto, la rappresentanza, le istituzioni perdono significato. Non è indifferenza, ma una sorta di nichilismo dato dalla disperazione.

È contro questa inerzia che occorre costruire nuovi spazi dove la realtà abbia casa, tornare a incontrare le persone, ricreare comunità. Bisogna dire che la natura non è un’aiuola o un giardino, non è un viale alberato, non è una finzione;siamo parte della natura e senza di essa non esistiamo. Si tratta di pretendere parole vere, nate attorno alla transizione ecologica – o, meglio, alla conversione ecologica – e agire concretamente per la pace, consapevoli che «le energie rinnovabili rappresentano il piano di pace del XXI secolo», come ribadito da Guterres. Tornare alle periferie come luogo di significato, perché «coloro che la vita ha messo ai margini, nei modi più diversi, siano portatori di una sapienza in grado di riaprire ambienti asfittici e discorsi chiusi», secondo il programma di ricerca Fare teologia dalle periferie esistenziali, voluto da papa Francesco con l’obiettivo di promuovere un rinnovamento della teologia. Allo stesso modo, la politica può sopravvivere solo se riacquista un significato di speranza, di cambiamento positivo nelle vite delle persone, ritrovando la linfa per un processo trasformativo dell’esistente.

Dobbiamo ricominciare a nutrire quello che Ermanno Olmi, il grande maestro del cinema neorealista, chiamava «il sentimento della realtà». Tornare a pretendere la realtà, e la serietà che ne consegue.


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