di Domenico Gallo

9 luglio 2025
RIUNIONE COORDINAMENTO NO RIARMO

Le questioni internazionali vengono spesso oscurate, evitate, per impedire un vero dibattito politico. Quando emergono e si rende necessaria una scelta popolare, ci viene detto che “abbiamo le mani legate” a causa dei vincoli internazionali imposti dall’Europa. In realtà, molte decisioni, come quelle assunte recentemente, sono frutto di scelte politiche interne.

La NATO è un’organizzazione internazionale basata su un trattato, che non comporta alcun trasferimento di sovranità dagli Stati membri verso l’organizzazione stessa. Le decisioni vengono prese dal Consiglio Atlantico, composto da rappresentanti di ciascun paese, e devono essere approvate all’unanimità. Questo processo decisionale è piuttosto complesso e burocratico, tanto che sul piano militare si cerca spesso di aggirarlo.

Un esempio evidente è il processo di allargamento della NATO: ogni nuova adesione comporta la modifica formale del trattato originario del 1949, che deve essere ratificata da tutti i membri. Il recente ingresso della Svezia è stato possibile solo dopo l’approvazione della Turchia, che aveva inizialmente posto il veto.

Durante la riunione del Consiglio Atlantico del 24-25 giugno, è stata rilasciata una dichiarazione molto sintetica, che ribadisce l’impegno alla difesa collettiva (articolo 5) e propone un programma di incremento delle spese militari fino al 5% del PIL entro il 2030. Tuttavia, questa dichiarazione non è stata firmata da tutti i paesi (la Spagna, ad esempio, non l’ha sottoscritta), e quindi non rappresenta un atto formale vincolante.

È importante sottolineare che non è la NATO a imporre questo programma di spesa: è il governo italiano che ha scelto di assumersi questo impegno, probabilmente per compiacere altri partner internazionali. L’obiettivo è portare la spesa militare da circa 35 miliardi a 100 miliardi di euro all’anno entro dieci anni.

Quando ci verranno a dire che “abbiamo un vincolo” e che “ce lo chiede la NATO”, dobbiamo rispondere con chiarezza: non è la NATO a chiederlo, è il governo Meloni che ha scelto volontariamente di assumere questi impegni. Nessuno ha obbligato l’Italia a firmare. È una decisione politica, e come tale, il governo deve assumersene la responsabilità, anche di fronte al dissenso del popolo italiano.

Questi impegni non sono trattati internazionali, ma atti di indirizzo politico. Se fossero trattati, il Parlamento dovrebbe ratificarli, e potrebbe anche rifiutarsi di farlo. Invece, si tratta di semplici dichiarazioni di intenti, sottoscritte da alcuni Stati membri della NATO, ma non da tutti. Non hanno valore giuridico vincolante.

Un articolo del generale Mini, pubblicato il 3 luglio, lo chiarisce bene: “Il 5% è un impegno politico di ogni nazione che intende adottarlo. La NATO non obbliga nessuno. Non sono previste sanzioni o limitazioni per chi non lo rispetta, salvo pressioni politiche o ricatti individuali.”

Dunque, è fondamentale comprendere che non esiste alcun vincolo giuridico internazionale che obblighi l’Italia a incrementare la spesa militare. L’unico vincolo è quello politico, assunto dal governo attuale, e valido solo finché quella maggioranza resta in carica.

Dal punto di vista costituzionale, l’articolo 117 della Costituzione, riformato con il nuovo Titolo V, stabilisce che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni deve rispettare:

  • La Costituzione;
  • L’ordinamento comunitario;
  • Gli obblighi internazionali.

Ma attenzione: gli obblighi internazionali sono solo quelli derivanti da:

  • norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (es. consuetudini);
  • trattati internazionali ratificati regolarmente dal Parlamento;
  • ordinamento comunitario (che ha natura sovranazionale e prevale sul diritto interno).

La NATO, invece, non comporta alcuna cessione di sovranità. Non è un ordinamento sovranazionale. Non può imporre obblighi vincolanti agli Stati membri, se non attraverso trattati ratificati. Le dichiarazioni politiche, come quella sull’aumento delle spese militari, non rientrano tra i vincoli giuridici previsti dall’articolo 117.

La legge 131/2003, che ha dato attuazione alla riforma del Titolo V, lo conferma: solo i trattati internazionali ratificati, le norme consuetudinarie e il diritto comunitario costituiscono vincoli alla potestà legislativa.

In conclusione, l’impegno assunto dal governo italiano in sede NATO non ha alcun valore giuridico vincolante. È una scelta politica, revocabile da future maggioranze. Non dobbiamo lasciarci intimidire da chi parla di “vincoli internazionali” inesistenti. Se il governo ha preso questo impegno, ne risponde politicamente davanti al popolo italiano.

D:È stata sottolineata con chiarezza da Domenico Gallo la questione degli impegni assunti dall’Italia in ambito NATO. A questo proposito, si è voluta evidenziare la differenza sostanziale tra l’architettura giuridica della NATO e quella dell’Unione Europea. Mentre l’UE comporta una vera e propria cessione di sovranità, con vincoli effettivi tramite direttive e regolamenti, ogni spesa – anche quelle previste in piani di grande entità, come quello da 800 miliardi – deve comunque essere approvata dal Parlamento. Nulla può essere applicato automaticamente, a differenza di quanto avviene nel contesto NATO, dove il controllo parlamentare risulta più debole o assente.

R: Fortunatamente, l’Unione Europea non ha competenza in materia di difesa nazionale: questa resta di esclusiva competenza degli Stati membri. L’UE può solo incentivare o facilitare investimenti nel settore, ad esempio permettendo di sforare i limiti del Patto di Stabilità o offrendo prestiti agevolati tramite la Banca Europea per gli Investimenti, o anche creando una banca ad hoc. Oppure può emettere bond creando un debito che i singoli stati possono usare per il riarmo, anche se questa intenzione per ora non c’è.  Ma non può imporre agli Stati membri di destinare fondi alla spesa militare.

Le decisioni comunitarie seguono due canali:

  • Le direttive, che richiedono un recepimento da parte del Parlamento nazionale;
  • I regolamenti, ossia leggi europee, che invece hanno efficacia diretta e prevalgono sulle leggi nazionali, ma non possono mai imporre spese militari agli Stati membri. Se lo facessero, sarebbero facilmente impugnabili davanti alla Corte di Giustizia dell’UE.

D: È stato sottolineato come la comprensione del quadro giuridico sia fondamentale per l’azione del movimento contro il riarmo. Conoscere i meccanismi normativi consente infatti di smontare le narrazioni che presentano certe scelte politiche come “obbligate” o inevitabili.
In particolare, è emersa una questione di estrema gravità: l’esistenza di una norma che escluderebbe alcune spese militari dal controllo del Parlamento e della Corte dei Conti. Se confermata, tale disposizione rappresenterebbe un attacco diretto ai principi costituzionali e un ulteriore passo verso un processo decisionale autoritario. In tal caso, è stato suggerito che la norma andrebbe impugnata, eventualmente davanti al giudice amministrativo o alla Corte Costituzionale.

R: Questa norma è contraria all’ordinamento giuridico italiano e fa parte della deriva autoritaria di questo governo. Se venisse fuori, bisognerebbe impugnarla. 

 A questo proposito, ho rivisto la sentenza n. 238 del 2014 della Corte Costituzionale, scritta dal giudice Tesauro. In quel caso, la Corte ha stabilito che i vincoli internazionali non possono prevalere sui principi fondamentali della Costituzione italiana. La sentenza riguardava il diritto delle vittime italiane del nazismo a ottenere risarcimenti dalla Germania, nonostante una sentenza contraria della Corte Internazionale di Giustizia. La Corte costituzionale italiana ha affermato però che esistono dei “controlimiti”: i diritti inviolabili della persona non possono essere sacrificati nemmeno in nome di obblighi internazionali, dichiarando così incostituzionale la legge di adesione dell’Italia alle Nazioni Unite nella parte relativa alla sentenza della CIG da cui derivava l’obbligo di dare esecuzione alla medesima.

Purtroppo, oggi assistiamo a un arretramento delle garanzie costituzionali. Un esempio recente è la sentenza dell’8 luglio sulla legge che limita le attività di soccorso in mare: la Corte ha riconosciuto che la legge non impedisce formalmente i salvataggi, ma ha evitato di dichiararla incostituzionale, lasciando spazio a interpretazioni restrittive.

Tutto ciò non deve scoraggiarci: le garanzie costituzionali esistono ancora, ma dobbiamo attivarle e difenderle. Non possiamo permettere che il principio di legalità venga eroso in nome di presunti vincoli internazionali che, nella maggior parte dei casi, non esistono o non sono vincolanti.

D:Riguardo alle basi militari NATO presenti in Italia: è vero che, pur trovandosi su territorio italiano, le decisioni operative spettano esclusivamente alla NATO? Ha citato l’esistenza di un Regio Decreto del 1941 che imporrebbe la segretezza sulle attività svolte in queste basi, e ha chiesto chiarimenti sulla commissione di esperti che deciderebbe sugli armamenti, escludendo il Parlamento.
Ha chiesto a Domenico Gallo di chiarire quali siano i margini di sovranità dello Stato italiano rispetto all’uso delle basi NATO sul proprio territorio.

R: La questione delle basi NATO in Italia è complessa. In realtà, molte di queste non sono formalmente basi NATO, ma basi statunitensi concesse in uso agli Stati Uniti attraverso accordi bilaterali. Questi accordi, contrariamente a quanto previsto dalla Costituzione, non sono pubblici: sono stati tenuti segreti, a differenza di quanto avviene in altri paesi, come la Turchia, dove gli accordi sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.

Per esempio, la base di Camp Darby è stata concessa agli Stati Uniti per 99 anni, una situazione simile a quella della base di Guantánamo a Cuba. In teoria, ogni base ha un comando congiunto: un comandante italiano e uno americano. Questo dovrebbe garantire una sorta di “doppia chiave” per l’utilizzo delle strutture e delle attività militari.

Tuttavia, nella pratica, le autorità italiane spesso lasciano piena libertà di azione agli Stati Uniti, come accade a Sigonella. Eppure, ci sono precedenti in cui l’Italia ha esercitato la propria sovranità: ad esempio, nel caso del dirottamento dell’aereo egiziano, i carabinieri italiani impedirono agli americani di prelevare i sospetti terroristi.

È quindi fondamentale chiedere trasparenza: gli accordi devono essere resi pubblici, come previsto dalla Costituzione. Solo così si potrà esercitare un controllo democratico su queste strutture.